Minori immigrati

La conferenza biennale del CESE del maggio scorso si è chiusa con la proposta di un libro verde per spingere i paesi dell'Unione ad adottare investimenti e strategie comuni nel settore dell'educazione. Varie le testimonianze della società civile con il racconto di alcune esperienze sul campo, provenienti dal mondo dell'associazionismo e delle istituzioni.

Sul ruolo dell'integrazione scolastica dei minori immigrati è intervenuta la dottoressa Simona Taliani, psicologa specializzata in antropologia, ricercatrice della facoltà di Psicologia dell’Università di Torino in Antropologia Culturale e collaboratrice da molti anni del centro Frantz Fanon di Torino.

Dottoressa Taliani, di cosa si occupa il centro Frantz Fanon di Torino?

L'associazione Frantz Fanon è nata nel 1997, con lo scopo di fornire assistenza socio sanitaria, in particolare psicologica e psichiatrica, alla popolazione immigrata, tra cui anche richiedenti asilo, rifugiati politici e vittime di tortura. Negli anni abbiamo fondato il centro, dove svolgiamo attività clinica, attualmente convenzionato con il dipartimento di salute mentale dell'ASL di Torino 1. Sono quindi attività pubbliche, gratuite, rivolte alla popolazione immigrata che presenta delle sofferenze o che per motivi di disagio si trova ricoverata in reparti psichiatrici. Negli anni questa nostra attività ha trovato anche spazi non prettamente clinici, più rivolti alla prevenzione psicosociale, come i laboratori nelle scuole, il lavoro con i detenuti nella casa circondariale minorile "Ferrante Aporti" sulle tematiche della devianza e del disagio. La città di Torino è infatti particolarmente sensibile al tema dei minori, anche perchè si ritrova con una popolazione di giovani immigrati molto alta, sia della cosiddetta seconda generazione, ragazzi nati o arrivati molto piccoli in Italia che hanno già compiuto il loro percorso di scolarizzazione, sia di minori non accompagnati richiedenti asilo. Molti di loro finiscono purtoppo nel circuito della micro criminalità, spaccio, piccole rapine e furti. Zone di disagio sulle quali cerchiamo di intervenire.

Nel suo intervento parlava della necessità di non "medicalizzare" il disagio fisiologico derivante dalla situazione in cui si trova il ragazzo immigrato, spesso connessa anche a problemi di tipo politico e giuridico. Quali sono i rischi che questa prassi, soprattutto nella scuola, porta con se?

Da un lato c'è un richio immediato, ovvero di inscrivere il bambino nel circuito istituzionale psico patologico. Il bambino dovrà per forza familiarizzare presto con i servizi socio sanitari, con una certa modalità di relazionarsi a lui, con delle diagnosi. Ci sarà perciò una decodificazione del suo disagio in termini mediacalizzanti. E sarà un bambino che costruirà la sua identità anche a partire da questa categoria, a volte soprattutto da questa categoria. Questo è un grosso rischio per la sua crescità perchè se il suo disagio era fisiologico, normale, può diventare in questo modo un problema effettivamente patologico. Prendiamo ad esempio i ritardi nel linguaggio. Sappiamo che l'investimento nell'apprendimento di una lingua ha a che fare non soltanto con strutture cognitive o con l'intelligenza, ma anche con le risorse sociali e con l'utilizzo che di essa dobbiamo fare. Un bambino straniero è spesso immerso nel bilinguismo, tra la lingua della sua famiglia che sente in casa e l'italiano parlato a scuola, aggiungiamo a questo la problematica della lingua nella migrazione; se il bambino non ha chiaro se e quanto i genitori si fermeranno in quel paese, se hanno o meno i documenti e un lavoro, probabilmente investirà nell'apprendimento della nuova lingua in maniera diversa o minore. Tutte queste variabili, pur all'apparenza banali, devono essere considerate. Ma il rischio è che tanto la scuola quanto i servizi sanitari non ne tengano conto, non facciano domande al riguardo, non riescano a capire che cosa c'è dietro ad un certo disagio.

Il secondo problema è che anche la mediacalizzazione avviene in modo balbettante. Spesso i nostri colleghi neuropsichiatri o psicologi mancano di strumenti adeguati per diagnosticare i disagi connessi alla condizione dei migranti. Ad esempio somministrano test che non sempre sono calibrati sulla popolazione immigrata. Si utilizzano ad esempio sui bambini i questionari per la diagnosi di autismo perchè non prevedono l'uso del linguaggio, ma poi non si è in grado di valutare le competenze linguistiche nella propria lingua madre. Come si può diagnosticare un disturbo del linguaggio se non sappiamo come il bambino parla la sua lingua? E' di fatto una medicalizzazione zoppicante, che aggiunge nel minore e nella famiglia ulteriore confusione.

Infine, e non ultime, ci sono le implicazioni politiche di questo processo. Se continuiamo a mediacalizzare indistintamente i bambini migranti in situazioni di disagio ci sarà inevitabilmente meno attenzione nel mettere in atto strategie scolastiche e umanitarie di altra natura.

Operatori socio sanitari e insegnanti sono preparati ad interagire con le dinamiche e i problemi relativi alla popolazione immigrata?

Il lavoro con le persone immigrate richiede uno sforzo in più di approfondimento, di lettura, ricerca e documentazione. E' necessario iniziare a parlare di una teoria della cultura di appartenenza e questo significa innanzitutto conoscere i percorsi migratori, le situazioni storico - politiche, i luoghi da cui provengono i bambini. Mogadiscio non è un "paesetto", come talvolta mi sono sentita dire. Per il bambino Mogadiscio è una realtà urbana confusa, caotica, mentre per l'insegnante resta poco più che un villaggio. Se continua ad esserci questa distanza nell'immaginario è chiaro che la relazione del bambino con l'insegnante ne risentirà.

Questo problema riguarda non solo la scuola ma tutti gli operatori che di fronte a questa sfida che richiede un maggiore investimento di energia tendono a reagire minimizzando e banalizzando, fingendo che le differenze culturali non siano poi così rilevanti. Questo non invita a dover calibrare il proprio ruolo educativo. Lavorare correttamente in queste situazioni significa intanto riconoscere di non avere una risposta per tutto. Significa non accontentarsi di stereotipi o banalizzazioni della cultura altrui, non andare all'incontro con l'altro con presupposti prefissati. Non servono "ricette etniche", soluzioni standard su come comportarsi con il bimbo cinese piuttosto che marocchino. Un bagaglio antropologico sulla cultura di provenienza non si risolve in un prontuario, ma necessita di approfondimento. Serve una teoria della cultura, proprio come ne abbiamo una della psiche. (francesca coppini)

Ultimo aggiornamento: 02/08/2012 - 13:22