Renato Palma

Renato Palma, medico e psicoterapeuta fiorentino, ha pubblicato recentemente il volume I sì che aiutano a crescere in cui propone, partendo dalla sua esperienza lavorativa un modello educativo basato sull'affettività che è anche un diverso modello di rapporto tra generazioni.

Lei è medico e psicoteraputa, come è avvenuto il passaggio dalla medicina alla psicoterapia e infine al tema dell'educazione? Qual è il percorso che l'ha portata a scrivere questo libro?


Il passaggio dalla medicina alla psicoterapia è avvenuto molto naturalmente quando è prevalso in me l'interesse verso il rapporto con il paziente. L'idea che la la medicina sia una scienza che si occupa di un soggetto e non di un oggetto, il modo in cui i pazienti affrontano le malattie e le situazioni di disagio erano per me più importanti rispetto alla diagnosi medica e così pian piano sono passato alla psicoterapia.
Il passo successivo dalla psicoterapia all'educazione, che è il tema del libro, nasce dal fatto che la terapia non è altro che una forma sofisticata di educazione: si tratta di apprendere altre regole, altre chiavi di lettura che dovrebbe portare a quella che chiamiamo guarigione o benessere. Questo passaggio dal modello educativo della terapia al modello educativo classico mi ha fatto riflettere sul fatto che spesso è il modo in cui siamo educati che ci porta ad affrontare la relazione con noi stessi e con le sfide che la vita ci propone come la malattia, la sofferenza, la tristezza, l'amore.
Inoltre, secondo me, se ci curassimo di far crescere i bambini con meno conflitti senza dubbio ci sarebbe meno bisogno di psicoterapeuti.


In questo momento sembra esserci un ritorno all'autoritarismo e un ripensamento sui temi dell'educazione, anche in chi si occupa di scuola per esempio. Alla luce di tutto questo, la sua sembra una proposta in controtendenza. Cosa ne pensa?

Sicuramente, quando si comincia a ritornare all'autoritarismo verso i bambini è un momento molto critico per la società. Il fatto che ci sia un atteggiamento di controllo verso i più piccoli, e anche verso le donne, è un segno di un malessere sociale.
Quello di cui io parlo nel libro è invece un approccio alla conoscenza rilassato e gradevole; i bambini sono curiosi, vogliono imparare e stare con gli adulti, mentre noi adulti abbiamo paura che la loro intraprendenza ed energia possano sfuggirci di mano e facciamo in modo che molto presto imparino chi comanda e quali sono le regole. Ovviamente ci sono tradizioni che dicono che questo conflitto deve essere forte, deciso e immediato altre che invece sono più tolleranti, ma l'idea che i bambini debbano imparare e, che per imparare, sia necessario l'uso di forza nei loro confronti è un'idea molto diffusa. Questo introduce una conflittualità non necessaria tra adulti e bambini con la conseguenza che, quando il bambino cresce e sceglie un avversario, non riuscendo a confliggere in maniera soddisfacente con gli adulti, impara a confliggere con se stesso. Si viene così a creare una sacca di sofferenza interna che può sfociare in una visione un po' melanconica della vita oppure, in qualche caso, può scivolare nelle sofferenze più conclamate nel campo della psicologia.
Il ritorno all'autoritarismo non è soltanto Donald Winnicot o le madri tigri ma è un movimento politico che inizia negli anni 70-80 quando ci si accorge che la base sociale si sta allargando e molte più persone hanno la possibilità di accedere alla cultura e a una migliore qualità della vita, a questo punto si stringono i cordoni e, naturalmente, questo si fa molto meglio partendo con un'educazione molto severa nei confronti dei bambini.


Da una parte assistiamo ad una crescita dell'autoritarismo al tempo stesso però vediamo anche un' incapacità generale di prendersi delle responsabilità. Come possono convivere due caratteristiche in apparenza tanto contraddittorie?

Il problema della relazione con i bambini viene sempre considerato secondo due modelli antitetici: un permissivismo che equivale all'assenza dell'adulto, nella relazione e un autoritarismo che prevede invece una presenza forte. La responsabilità è invece un concetto positivo, perchè stare con i bambini richiede tempo, rispetto e molta responsabilità.
La situazione degli adulti è una situazione conservativa, pensiamo che il mondo nel quale viviamo sia grosso modo il migliore dei mondi possibili e non siamo disponibili a cedere la minima possibilità di cambiamento a nessuno: questo vale per i bambini ma vale anche per le donne.
Il bambino arriva, nel corpo sociale, come portatore di innovazione e cambiamento e col suo dinamismo mette in difficoltà una società che non è semplicemente statica ma è conservativa. La responsabilità che dovremmo prenderci invece è quella di cambiare le nostre idee, di pensare i bambini come possibili cooperatori e collaboratori per cambiare il mondo ed è una grande responsabilità perchè la scorciatoia della forza ci permette di dire che una cosa non si può fare, al di là delle motivazioni del divieto.


Quando si parla di obbedienza difficile non pensare a Don Milani quando nella Lettera ai Cappellani militari dice “non posso dire ai miei ragazzi che l'unico modo d'amare la legge è d'obbedirla”. Rinunciando all'esercizio del potere e all'obbedienza quale può essere un'educazione nuova dalla parte dei ragazzi?

Ci sono movimenti molto interessanti come philosophy for children oppure personaggi come il maestro Bruno Ciari, grande innovatore della pedagogia, che sostanzialmente dicono che le regole si possono fare insieme. C'è un problema però ed è bicefalo: uno è che noi, maschi bianchi, dobbiamo comunque essere quelli che comandano, poi vengono le donne ma solo come madri per condividere un qualche potere; quindi dobbiamo convincere i bambini a rispettare le regole con qualunque metodo il che può provocare anche delle reazioni negative.
Quindi il rapporto con le regole diventa drammatico perchè da una parte pensiamo che, se non insegniamo le regole ai bambini questi diventano dei primitivi, dall'altra abbiamo sempre più fretta e creiamo problemi che si amplificano. Le regole vengono create da qualsiasi consorzio umano per cercare di migliorare la qualità delle relazioni e, di solito, vengono proposte dai più deboli anche se poi vengono fatte dai più forti. Quelli che propongono un miglioramento della qualità della vita attraverso le regole sono coloro che le regole non le potrebbero imporre, da questo punto di vista il primo passo per poter migliorare la qualità della vita è quello di darsi delle regole, ma il secondo passo è proprio quello di ridiscutere quelle regole quando queste non generano benessere oppure addirittura generano sofferenza.
È un passo che dimentichiamo sempre perchè siamo dei conservatori e pensiamo che le regole debbano valere in ogni caso, ma perchè i bambini non possono partecipare alla stesura di un codice di comportamento che preveda la collaborazione da parte di tutti?


Quale aiuto potrebbe arrivare dai bambini alla realizzazione di una società migliore?

La caratteristica più forte dell'essere umano è il senso della possibilità che è al massimo al momento della nascita e poi man mano si riduce. E' proprio questo senso della possibilità che ci scambiamo tra esseri umani e sono i ragazzi a saperne più di noi perchè vivono la vita come una continua possibilità, vedono le cose in maniera molto più libera di quanto sono in grado di fare gli adulti. Dovremmo cambiare il nostro preconcetto, pensare che in fondo noi non siamo qui ad insegnare cose che sappiamo e loro non sanno, ma siamo qui a cercare di sviluppare questo senso della possibilità che è la capacità di migliorare la vita e di immaginare cose che ancora non esistono.
E' chiaro che qualunque relazione ha un momento in cui si creano delle differenti vedute o differenti obiettivi, ma il problema che noi abbiamo, e non solo con i bambini, è quello di pensare che chi ha più forza comanda. Ma la nostra forza è decrescente e la loro crescente per cui, quando arriveranno all'adolescenza, utilizzeranno la forza ogni volta che non riusciranno a vedere rispettate e riconosciute le loro esigenze.
C'è, però, un piccolo spiraglio che è una domanda “Come sarebbe stata la nostra vita se la cultura non fosse stata creata da bambini spaventati?” Perchè tutto quello che abbiamo creato dal punto di vista culturale, l'abbiamo creato dopo aver dovuto affrontare situazioni di sofferenza perlomeno affettiva.
Come sarebbe stato il mondo se invece di punire Prometeo, Zeus gli avesse detto “Sei stato bravo, peccato non ci abbia pensato io. L'avrei voluto fare io.”


Con un sistema educativo basato sull'affettività, qual è il testimone che una generazione lascia a quella successiva?

Il testimone che viene passato è il considerare tutte le persone come società, al di là del fatto che siano bambini o donne, a prescindere dalla loro identità. Da una generazione all'altra passa un'idea che comunque i problemi si affrontano insieme parlandone e se un problema è molto grave ci vorrà ancora più affetto. E l'affetto non sono i baci e le carezze ma l'utilizzare la possibilità per chiedersi come si potrebbe fare diversamente e come si può affrontare un problema senza confliggere con se stessi o con gli altri. (francesca conti)




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Ultimo aggiornamento: 19/06/2012 - 08:01