progughi Eritrea

Mentre l'eco degli ultimi morti delle traversate del Canale di Sicilia rimbomba sui media, Dehab – 23 anni, eritrea - è una di coloro che ce l'hanno fatta.

Quando un anno e mezzo fa partì dalla Libia per attraversare il Mediterraneo era all'ottavo mese di gravidanza, e molto determinata.

É una dei tanti migranti scappati dal suo Paese e che, sempre più spesso, fanno i viaggi della speranza rischiando la vita per attraversare quel pezzo di mare che, una volta superato, li porta all'ingresso dell'Europa nella quale cercano una vita migliore.

Dopo un viaggio che sembrava non finire mai durato due anni e mezzo è riuscita ad arrivare a Lampedusa. Michaeal, il marito, invece è dovuto rimanere in Libia perché la polizia lo ha incarcerato.

La traversata e la nascita di Marta
«A Tripoli eravamo in attesa dell'imbarcazione che ci avrebbe portati in Italia quando è arrivata la polizia libica e ci ha arrestati. Mio marito ha supplicato i gendarmi di far imbarcare almeno me, così mi hanno lasciata salpare. In 254 siamo riusciti a partire».

Per salire su quel barcone ha dovuto pagare 2.500 dollari. L'improbabile mezzo di trasporto sul quale viaggiava in balia delle onde è arrivato a Lampedusa dopo soli tre giorni e mezzo di viaggio. Finalmente - era il 20 novembre 2009 - era in Italia. Qualche giorno dopo dall'isola venne trasportata in aereo in ospedale a Bari dove è nata Marta. E Dehab nel nostro Paese ha ottenuto lo status di rifugiata.

La piccola Marta sta imparando a conoscere l'Eritrea in tv, attraverso un dvd video con la musica tipica del Paese di provenienza dei genitori. Dehab vuole che la figlia sappia quali sono le sue radici e chi è la sua famiglia e soprattutto vuole che possa conoscere il babbo e presto averlo accanto. Michaeal dopo quasi tre anni e mezzo in Libia - dove è stato imprigionato diverse volte perché cercava di imbarcarsi per l'Italia - da quando è iniziata la guerra contro il regime di Gheddafi, è stato trasferito in Tunisia in un campo profughi vicino a Djerba.

Dehab alla fine di luglio ha deciso di andare nel campo profughi dove si trova Michaeal e chiedere il ricongiungimento familiare per portarlo via con sé in Italia. La prova che sono marito e moglie, il certificato di matrimonio, hanno deciso che l'avrebbe tenuto lui come una sorta di lasciapassare.

La vita in Eritrea
Dehab viveva nella capitale, Asmara, con la mamma e due sorelle, una delle quali invalida. Dopo la morte del babbo nella guerra di indipendenza dall'Etiopia, l'unica fonte di reddito per la famiglia era lo stipendio della mamma che lavorava nel Cotonificio Barattolo, azienda di proprietà di un italiano, nazionalizzata nel 1975: «Nel 1998, io ero una bambina, mia mamma venne licenziata e non sapevamo come vivere. Sono la più piccola e le mie sorelle facevano diversi lavori per mantenerci ma era una situazione molto difficile. Quando tutte rimanemmo senza lavoro, avevo 19 anni, presi la decisione di partire per l'Italia per aiutare la mia famiglia. All'Asmara facevo l'arbitro di calcio delle squadre di Serie B e mi sarebbe piaciuto continuare ad arbitrare, magari in Italia. Telefonai allora ad Almaz, un'amica di famiglia che da anni vive a Firenze. Mi conosce da quando ero bambina e le chiesi di aiutarmi. Mi prestò parte dei soldi per il viaggio».

Il viaggio
Dehab con un pullman partì dall'Asmara per il Sudan. Un viaggio durato 20 giorni che quattro anni fa le costò l'equivalente di circa 4 mila dollari. Rimase ferma in quel Paese per diversi mesi e lì conobbe l'uomo che divenne suo marito. Anche lui fuggiva dall'Eritrea. Furono costretti a sposarsi perché in Sudan a una donna non è permesso uscire con un uomo che non sia suo marito. Per vivere lavorava a servizio nelle case, poi trovò impiego come domestica presso una donna sudanese che lavorava per le Nazioni Unite. Le aveva promesso di tenerla a servizio con sé ma non rispettò la parola data.

Con i soldi guadagnati e qualche prestito, con Michaeal, continuò il viaggio verso la Libia. «Eravamo in 250 tra i quali 11 eritrei e io ero l'unica donna. Per non farmi riconoscere ero vestita da uomo. Il viaggio ci costò 1.800 dollari ciascuno. Durante il tragitto verso la Libia siamo stati sequestrati da uomini armati che ci hanno rubato tutto ciò che avevamo e quando hanno scoperto che ero donna volevamo uccidermi. Siamo rimasti nel deserto del Sahara per due mesi finché i nostri rapitori ci hanno venduti ai libici. Per 3 giorni senza cibo né acqua, lungo la strada vedevamo corpi di persone morte. Molte erano donne».

In Libia
Arrivati in Libia, l'Italia sembrava quasi a portata di mano. Ci è rimasta per due anni e per due volte è stata imprigionata. A Tripoli Michaeal e Dehab abitavano con altre otto persone in una soffitta per la quale pagavano a nero 400 dollari al mese a un cittadino del Chad. «In Libia non potevamo lavorare. Eravamo impotenti e senza diritti. Se riesci a trovare qualche lavoretto, spesso, oltre a non pagarti ti picchiano. Dove abitavamo ogni tanto arrivava qualcuno armato di pistola e ci portava via tutto. Non abbiamo mai capito se erano banditi o poliziotti».

Quando Dehab è riuscita a partire, Michaeal ha passato 13 mesi in prigione. Svariate volte ha cercato di partire e uno dei barconi, sul quale non riuscì ad imbarcarsi, affondò facendo morire 331 persone, tutti eritrei. Altre volte, pronto per la partenza, vedeva che la barca era troppo vecchia per affrontare il mare e ci rinunciava al viaggio rimandando l'abbraccio con la famiglia alla volta successiva.

L'Italia
Durante tutto questo tempo Dehab è restata in contatto con il marito via telefono e, per email, è riuscita a fargli avere alcune foto di Marta. In Italia è ospite di Almaz e di suo marito Franco, italiano, che a Firenze hanno il ristorante Il Corno d'Africa. Almaz, anche lei dell'Asmara, è in Italia da 36 anni e conosce bene la situazione di Dehab e la capisce perché, anche lei, è dovuta scappare dalla guerra. Il babbo aveva una farmacia nella capitale eritrea e per salvare la figlia la fece partire per l'Italia.

L'abbraccio con Michaeal
Dehab alla fine di luglio è partita per la Tunisia con Marta con un obiettivo preciso: portare in Italia il marito. «Dal campo profughi di Djerba hanno proposto a mio marito di andare in Canada come rifugiato. Ma che ci va a fare se la sua famiglia è in Italia?». Finalmente Michaeal, dopo quasi due anni, è riuscito a riabbracciare Dehab e per la prima volta a stringere a sè la piccola Marta. Se tutto va bene entro la fine di agosto dovrebbero essere in Italia. Tutti insieme. (sp)

Ultimo aggiornamento: 19/11/2012 - 11:57